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Elezioni Usa 2024, il mondo con il fiato sospeso a partire da ieri 5 novembre per le elezioni presidenziali: Donald Trump o Kamala Harris? Chi vincerà dovrà prendere decisioni che avranno conseguenze globali. Su tutte, i conflitti attualmente in atto in Ucraina e Medio Oriente o, come sarebbe più corretto dire, Vicino Oriente. Dalla scelta degli elettori americani, infatti, dipendono i delicati equilibri per alleanze chiave come Nato ed Europa. Per non parlare dei rapporti con i Paesi avversari o competitor come Russia e Cina. Le divisioni tra Harris e Trump sono forse più evidenti proprio nella politica estera. Entrambi pensano si debba scrivere la parola “fine” alla guerra di Gaza ma sono gli strumenti attraverso cui arrivare al patto di una pace giusta che li contrappone.
Striscia di Gaza. Kamala Harris, sostanzialmente, ritiene che occorra proseguire la falsa riga tracciata dal presidente americano uscente, Joe Biden, attraverso i negoziati di pace. Quindi, il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza per poi indicare la via che dovrebbe portare alla formazione di uno Stato palestinese. Nel corso della campagna elettorale, la Harris si è collocata su posizioni anche più nitide, sostenendo la popolazione di Gaza che fino a pochi giorni fa contava all’incirca 43mila vittime. D’altro canto, si è detta contraria allo stop dell’invio di armi a Israele: presa di posizione, questa, che potrebbe allontanarla dalla sinistra dem e penalizzarla, in termini di voti, dagli arabo-americani.
Donald Trump, invece, è per la vittoria militare di Israele e ha profilato pure l’ipotesi di un’occupazione israeliana della Striscia con modalità e forme che, però, finora non ha mai rivelato. Va ricordato che durante il suo mandato presidenziale, Trump, non ha dato alcun sostegno alla causa palestinese in termini di formazione di uno Stato. All’epoca, trasferì l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e riconobbe il controllo di Israele del Golan, dal 1967 occupato dalla Siria dopo la Guerra dei sei giorni.
Iran. Altro tema caldo di politica estera: da poco più di un mese, il conflitto inizialmente circoscritto a Hezbollah si è allargato a tutto il Libano. Le posizioni dei due aspiranti inquilini della Casa Bianca nei confronti dell’Iran sono, quindi, la cartina di tornasole che potrebbe fornire la prova plastica dell’effettivo atteggiamento che entrambi intendono avere per evitare il rischio di uno scontro aperto con Israele. Soprattutto dopo i lanci di missili che ci sono stati di recente tra i due Paesi.
kamala Harris stigmatizza l’appoggio dell’Iran a Hezbollah e Hamas. Trump sostiene che i dem abbiano abbandonato l’accordo sul nucleare con Teheran firmato dal Barack Obama nove anni fa. Quest’ultimo, secondo il tycoon, non avrebbe fatto abbastanza, o tutto ciò che era in suo potere, per bloccare le “influenze negative” dell’Iran sostenuto da gruppi in chiave anti-Israele. Ciò avrebbe dato all’Iran la possibilità di arricchirsi di uranio con il conseguente aumento di armi atomiche nel proprio arsenale. Obiettivo, questo, della maggioranza dei cosiddetti “Stati canaglia” per di più nucleari.
Ucraina. Le elezioni Usa potrebbero creare un netto solco di demarcazione sulla risoluzione di un conflitto che, almeno stando alle parole di Trump, si potrebbe risolvere con una pace favorevole a Mosca. “The Donald”, infatti, ha a più riprese dichiarato che l’invasione russa sarebbe colpa di Volodymyr Zelensky. Anche per questo motivo, gli ucraini hanno il fondato motivo di credere che la sua elezione potrebbe portare a una pace troppo veloce per essere anche “giusta” e a quasi totale appannaggio di Putin. Da qui, la speranza che ne esca vincitrice kamala Harris e il prosieguo di accordi per il sostegno militare Usa. Trump ha sempre affermato che se fosse stato al posto di Biden, il conflitto non sarebbe mai scoppiato grazie ai suoi rapporti con il numero uno del Cremlino.
La Harris, invece, lo ha sempre rintuzzato dicendo che in quel caso Putin sarebbe già seduto a Kiev al posto di Zelensky. Il magnate americano ha subito controbattuto che basterebbe eleggerlo per mettere alla prova la sua capacità di porre fine alla guerra nel giro di poco tempo. Come spesso è successo, però, non ha spiegato come avrebbe fatto per mettere in pratica uno dei suoi tanti proclami. D’altra parte, stando a quanto riportato nei giorni scorsi dal Financial Times, ci sarebbe già un think tank al lavoro, sotto la sua supervisione, per studiare soluzioni che dovrebbero portare alla pace e, al contempo, ridurre al minimo il coinvolgimento degli Stati Uniti. Fin qui tutto bene, non fosse per il “piccolo particolare” che toccherebbe poi ai Paesi europei il gravoso peso economico e di coordinamento del processo di pace.
Conseguenze. Potrebbe verificarsi una situazione in cui l’Ucraina, fuori dalla Nato e con nessuna possibilità di entrarvi nel futuro prossimo né di là da venire, si troverebbe con zone autonome e smilitarizzate su entrambi i lati del confine. In tal senso, secondo quanto sostiene Bob Woodward nel suo nuovo libro, Trump avrebbe avuto numerosi contatti con Putin. Il Cremlino ha però smentito quanto pubblicato dal giornalista diventato famoso per l’inchiesta sullo scandalo del Watergate, scritta insieme al collega Carl Bernstein. Meno laconica la replica di Trump che a domanda diretta ha risposto: “Non rilascio commenti ni proposito, ma se avessi avuto quei colloqui, sarebbe stata una mossa intelligente”.
L’Europa. Una vittoria da parte di kamala Harris, che sarebbe la prima donna a sedere sulla poltrona dello Studio Ovale, sarebbe vissuta con maggiore serenità da parte dell’Europa. Innanzitutto, perché il biglietto da visita sarebbe quello della precedente Amministrazione Biden di cui ha fatto parte e, in secondo luogo, perché questo vorrebbe dire rafforzare una volta di più, a torto o a ragione, l’alleanza Atlantica. La Harris, però, potrebbe pagare l’inesperienza, tra molte virgolette, legata alla mancanza nel suo curriculum di decisioni di politica estera prese in totale autonomia.
Incertezza, questa, che pare sia da preferire alle posizioni nette di Trump nei confronti, ad esempio, del premier ungherese sovranista molto vicino a Putin, Viktor Orban. Il riverbero di un’uscita degli Usa dalla Nato con un’eventuale presidenza Trump, in un primo momento sussurrata, è diventato via via sempre più tonante. Appare senz’altro più una minaccia dialetticamente nucleare in stile “Guerra fredda” che una reale possibilità: agitare lo spettro di qualcosa che, si sa, garantirebbe la mutua distruzione assicurata, per influenzare uomini e mercati a proprio piacimento.
Cina. I rapporti con la Cina sono il punto in cui Trump e Harris sono vicini. Il secondo Stato più popoloso della Terra, infatti, è il maggior concorrente economico, nella difesa e nelle alleanze. Entrambi si sono espressi con toni molto marcati nei confronti di Pechino accusandolo spesso di furti di proprietà intellettuali oltre che di sostenere con sussidi scellerati l’industria tech e manifatturiera a discapito di quella americana. Ciò non di meno, Donald Trump, che ha promesso di riprendere la guerra dei dazi doganali contro la Cina, ha più volte espresso ammirazione nei confronti di Xi Jinping. Lo ha definito come un uomo forte con un potere assoluto che lui vorrebbe per sé stesso almeno per un giorno. Ai cittadini americani spetta il compito probabilmente più delicato del recente passato. Chi vincerà tra Trump e Harris è destinato a spostare equilibri mondiali che forse sono i più delicati da oltre trent’anni a questa parte.
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