“Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”. Parole di Gaetano Salvemini nella prefazione di “Mussolini diplomatico”. Sono trascorsi 77 anni dal 25 aprile del 1945, ancor più tempo da questa frase. Profonda, potente. Disarmante, pensando soprattutto che a scriverla è stato chi l’epoca buia della dittatura fascista l’ha vissuta. Riferimento quasi inevitabile, questo legato al Ventennio, ma oggi in Italia si celebra la Festa della Liberazione, si festeggia la cacciata del nemico straniero dal Paese.
Una memoria, quest’anno, legata a doppio filo con quanto sta accadendo in Ucraina. Il 24 febbraio scorso, con la dichiarazione di guerra da parte della Russia, è iniziato uno dei capitoli più oscuri della storia contemporanea dalla Seconda Guerra mondiale. Una catastrofe fino a poco tempo fa impensabile con cui, oggi come ieri, si manifesta la ferocia dei totalitarismi e la capacità di plasmare intere generazioni manipolando l’informazione, spesso senza filtri, attraverso l’uso spregiudicato dei social network e di software video in grado di rendere il fact-checking un’impresa a volte impossibile. Un macabro copione, quindi, che si ripete con strumenti rinnovati ma che si articola sulla stessa falsa riga di sempre confermando le parole di Primo Levi: “Tutto questo è accaduto, dunque può ancora accadere”. Celebrare la Resistenza in Italia quest’anno significa anche avere il coraggio di ammettere a noi stessi che per quanto sembri uno scenario lunare, lo scempio che si consuma in Ucraina è un rischio attuale che si può verificare ovunque. La memoria condivisa è l’arma più potente, “resistere” significa avere coscienza di sé: è un’attitudine mentale da tramandare.
Come l’anno scorso, siamo ancora impegnati a combattere contro un altro invasore che ha preso possesso delle nostre vite, il Covid ha rubato abitudini, entusiasmi, progetti. Un virus dilagante al pari del revisionismo storico contro il quale non esiste altra cura se non una lettura onnivora, ma ordinata, dei testi di storia e di diritto internazionale. Il 25 aprile va interpretato prima di tutto come un giorno di unità nazionale e consacrazione di libertà individuale che dal confine dell’altrui diritto non è limitata ma da questo confermata, per cui infinita. Ma è anche, tristemente, un giorno legato a doppio filo ai rigurgiti neofascisti che attraversano il Paese.
Occorre chiedersi come affrontare il tema dell’universalità dei diritti, del riconoscimento dell’esistenza in natura di un debito nei confronti della società per il semplice fatto di essere vivi e spendere la propria esistenza in un consesso in cui, per lo stesso motivo, l’oppressione è impensabile. Non si possono non constatare le basi friabili su cui incredibilmente poggiano convinzioni inoculate da una propaganda mediatica ante litteram in grado ancora di convincere e fare proseliti. Stupisce il proliferare delle leggende surreali sulle pseudoconquiste dell’Italia agricola: gli istituti di previdenza, le bonifiche, le fantomatiche riforme del mercato del lavoro e i salari. “Successi” che non appartengono al Ventennio, menzogne che resistono ancora. Un libro che le mette tutte in fila dimostrandone la fallacità è l’ottimo testo “Mussolini ha fatto anche cose buone – le idiozie che continuano a circolare sul Fascismo” dello storico Francesco Filippi. “Tutti i luoghi comuni sul duce smontati uno a uno – si legge in quarta di copertina – perché mai come oggi è necessario smentirli (ancora una volta). Una bussola essenziale per capire il presente”.
Capitolo a parte poi, i tentativi perniciosi di legittimazione politica. Come si può ancora oggi ritenere, a spregio di qualunque fondamento di diritto internazionale, che Salò fu una repubblica. Priva di qualunque potere di coercizione, di una costituzione, di riconoscimento internazionale, di tutte le caratteristiche necessarie per legittimare l’esistenza di uno Stato sovrano. Un mero governo de facto, ma in Italia, a differenza di altri Paesi, si discute ancora sulla validità di quella presunta micro-nazione la cui esistenza giustificherebbe fatti e misfatti. Negli anni Novanta, con il noto saggio di Claudio Pavone, “Una guerra civile, saggio storico sulla moralità nella Resistenza”, il dibattito mise bruscamente in discussione la lettura unanimistica della liberazione dal fascismo a livello storiografico.
Non che si fosse mai sopito, ma il libro di Pavone ridiede linfa vitale a un tema scabroso. Un testo che dapprincipio fece storcere il naso alle varie Anpi e ai reduci della Guerra di Liberazione. Un altro motivo per rinfocolare la contrapposizione dialettica intorno al rinnovato interrogativo: Resistenza o guerra civile? Un’opera che in realtà fece soltanto del bene alla causa dei partigiani italiani. Da lì in poi, infatti, l’argomento fu trattato finalmente in termini scientifici, si definirono, e furono riconosciute dalla storiografia, categorie e confini entro i quali far ricadere il concetto di “guerra civile”. Paradigmi e perimetri verso cui la Lotta di Liberazione italiana si colloca al di fuori.
Negli anni si è cercato di derubricare tutto a uno spargimento di sangue tra fratres invece che tra cives (in piena contraddizione quindi con la definizione finale di guerra civile) in cui il “nemico principale” non era il tedesco invasore. Tentativi scellerati che hanno avuto un seguito in Italia ma non in Paesi come la Francia dove è stata perfino coniata l’espressione “guerres franco-francaise” per ricomporre in nuce ogni tentativo di frattura nella nazione. Forse i vani tentativi di rilettura della storia italiana si potrebbero attribuire alla caratteristica intrinseca della guerra civile come conflitto raccapricciante e distante, in chiave politica, dal concetto di “rivoluzione”. Mettendosi così al riparo da eventuali repliche sulla presa del potere “legittimata” da Vittorio Emanuele III, da cui discende la slavina di distinzioni, definizioni e contrapposizioni.
La Festa di Liberazione va intesa soprattutto come una ricorrenza che unisce, ma in una terra in cui la dialettica politica traligna ancora nella contrapposizione tra fascisti e comunisti, spostando poi il confronto tra la destra in Italia e la sinistra nel mondo, come se le dittature avessero qualcosa a che fare con l’ideologia pura, non si deve temere di inerpicarsi tra le “sfumature” più dure del ragionamento. Violentare ancora oggi l’interpretazione dell’articolo 21 della Costituzione in virtù di un ipotetico deficit di democrazia nel nostro Paese equivale a sordida malafede. In ogni parte del mondo, ovunque ci sia stata una dittatura è stata poi vietata la riorganizzazione e l’apologia dei partiti sotto cui si sono affermati regimi autoritari o totalitari.
All’obiettivo di appagare la brama di una cupio dissolvi della memoria storica dell’Italia con la proposta di abolire la Festa del 25 aprile a cui ogni anno, in nome di una presunta pacificazione nazionale, si prestano intellettuali e direttori di giornali e agenzie di stampa, si deve rispondere con celebrazioni sempre più animate da spirito di unità nazionale ma con l’orgoglio della memoria. Per questo, continua a essere fondamentale il ruolo dell’Anpi che tempo fa ha aperto i tesseramenti anche a giovani e a meno giovani dando loro la possibilità di formarsi e garantire così continuità al diffondersi della memoria e dei principi morali della Resistenza contenuti nella Costituzione. Dogmi che i padri fondatori hanno voluto “rigidi” e da cui ripartire con sentimenti unitari, al di là di qualsiasi appartenenza, in nome della libertà.
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