“Noi gabbiani ai temporali, nella tempesta ci buttiamo e poi spieghiamo le nostre ali volando là dove amiamo”. Ed è proprio là che volò Salvatore Pantaleone. Alla ricerca della libertà. Questa è una storia palermitana, quella del partigiano Orione. La storia di un figlio della Sicilia che lasciò la propria terra per arruolarsi nell’Aviazione del regio esercito, prima, e tra le fila della Resistenza dopo. Una storia fuori dalla narrazione, testimoniata dai documenti e da chi, a distanza di quasi 12 anni dalla sua morte, ne coltiva il ricordo.
Fatti impigliati tra le pieghe della storia, da rispolverare e rendere noti. Condensarne la passione, prolungata per il resto di tutta una vita sorella del confine tra impegno e devozione, è impresa ardua, più facile il rischio di inciampare nell’agiografia. Specialmente per chi potrebbe averlo vissuto da vicino, premessa doverosa prima di recuperarne la memoria e catturare l’interesse delle giovani menti che hanno mutuato sensazioni e stati d’animo di un’epoca soltanto attraverso foto e documentari dai fotogrammi sbiaditi. La Seconda Guerra mondiale fu una carneficina inaudita, la Resistenza una lotta senza quartiere combattuta contro un nemico armato fino ai denti, ma addestrato ad eseguire passivamente gli ordini, privo di flessibilità e capacità di adattamento che contraddistinguono invece le tattiche di guerriglia.
Fame, freddo, malattie, mutilazioni, sevizie, questo lo scenario che accolse Salvatore Pantaleone arrivato in terra friulana, il suo amato e mai dimenticato Friuli dove “c’è il sangue di mio padre (reduce della Prima Guerra mondiale, ndr) e il mio”. Dove quando le cose andavano bene e ci si poteva lavare poi “ci asciugavamo con la carta usata per avvolgere il pane, era così ruvida che lasciava i segni e dovevi fare in fretta per non morire di freddo”. La sua vicenda è stata raccontata dallo storico Angelo Sicilia, fondatore dell’Archivio Siciliano delle Resistenze, nel libro “Sulle montagne per difendere l’Italia, Storia di Salvatore Pantaleone, il partigiano Orione”. Tutto iniziò subito dopo la fine degli studi superiori. Vinto il concorso per 50 posti di allievo sottufficiale pilota dell’Aviazione, fu chiamato per errore nell’esercito con destinazione Monferrato, nelle Langhe piemontesi.
Da qui la richiesta di trasferimento poi ottenuta. Micidiali i racconti dell’esperienza in divisa: “Mi sono reso subito conto che non avremmo mai vinto la guerra – si legge nel libro di Sicilia – ci capitava, infatti, in pieno conflitto, di rimanere a terra per giorni per mancanza di carburante”. Poi la missione in Africa settentrionale, lo stormo di Orione partì senza di lui, rimasto nella base per ordine del medico militare a causa di forti coliche intestinali. La squadra non avrebbe mai fatto ritorno: “Non si salvò nessuno, furono abbattuti tutti. Il che era tragicamente immaginabile, gli angloamericani arrivavano con le ‘fortezze volanti’ a 600 chilometri orari, noi con i nostri, arrivavamo al massimo a 300 chilometri orari, il conflitto era impari”.
Dopo l’8 settembre, i tedeschi atterrarono ad Aviano, Pantaleone e i suoi commilitoni furono fatti prigionieri. Giusto il tempo di organizzare una fuga rocambolesca con gli abiti civili prestati da una ragazza e la decisione di aderire alla Resistenza: “Scelsi subito da che parte stare”. Iniziò così la dura lotta di Liberazione di Orione nella V Brigata della I Divisione di Montagna Osoppo Friuli, espressione delle forze socialiste di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e del Partito d’Azione di Ferruccio Parri.
In Valcellina. “Il nostro battaglione che era comandato da un ex ufficiale degli alpini, ‘Bianco’ (Francesco Serena, ndr), tenne ben due divisioni tedesche ferme fuori dalla Valcellina (…) Noi eravamo appostati e sparavamo con alcune decine di uomini nei luoghi strategici della valle, i tedeschi pensavano che le montagne intorno fossero piene di partigiani, così non si addentravano. Io tenevo la posizione a Barcis col Iº distaccamento composto da una decina di partigiani. In Valcellina si entrava attraverso una galleria. Qualche chilometro prima di questo tunnel c’era una centrale elettrica che dava la luce all’intera zona (…) di vitale importanza per i civili e quindi la proteggevamo, purtroppo i nazisti riuscirono a farla saltare”. Poi la rappresaglia e la ritirata durante la quale “coprivamo con raffiche la fuga dei compagni, il mio mitra s’inceppava”. Il nemico incendiò il paese riducendolo a un mucchio di macerie in fumo: “Da lì, l’inizio di una massacrante corsa verso le alture a nord delle nostre postazioni”.
Sangue, privazioni di ogni genere e raccapriccio quotidiano in un Paese in attesa della strategicamente lenta risalita degli Alleati, incuranti delle indicibili sofferenze costate agli italiani “poco inclini alla sopportazione e ai sacrifici“, scrivevano nei rapporti i Servizi inglesi dell’epoca. Eppure “I tedeschi e i repubblichini erano delle belve – si legge ancora nel libro di Angelo Sicilia – per dare l’ ‘esempio’ impiccavano i catturati e poi con il gancio conficcato nella gola li trascinavano per tutto il paese per inorridire la gente, per incutere terrore. Ho rischiato di fare la stessa fine”. Dopo essere scampato miracolosamente ai rastrellamenti tedeschi e della Decima Mas, la Brigata di Pantaleone raggiunse il suo ultimo obiettivo. Quella fu una delle operazioni finali del partigiano Orione che il 25 aprile del 1945, al comando del battaglione Tosca, liberò la cittadina di Roveredo in Piano, oggi in provincia di Pordenone.
Da questo momento in poi, un buco nero attorno al quale i racconti di Orione si sono sempre interrotti, un silenzio mai forzato per il sacrosanto rispetto da tributare a un reduce, ma sempre spezzato dal suo sguardo condiscendente, quello di chi sapeva che l’ascolto può sublimare in empatia solo se l’orrore l’hai attraversato. Con la cacciata dei tedeschi e la fine della guerra, alcune comunità straziate dalla furia nazifascista diedero sfogo a vendette e ad episodi di giustizia sommaria.
“Molti allora fecero giustizia da sé, cosa che noi della Osoppo, ed io in particolare, non permettemmo mai (…) Toccava a me presiedere anche i cosiddetti ‘processi al nemico‘ (…) non ho mai condannato a morte nessuno, anzi mi arrabbiavo molto se durante gli interrogatori venivano compiuti atti di violenza fisica (…) Mi accorsi che stavano prevalendo i rancori e le vendette personali. Salvai pure un maresciallo della Repubblica Sociale, un repubblichino, perché non me la sentii di condannarlo. Decisi di consegnare tutti i nostri prigionieri agli Alleati”. Poco tempo dopo, fu rintracciato dalla moglie che lo ringraziò per aver evitato la quasi certa fucilazione del marito.
Finisce così la storia della Resistenza del palermitano Salvatore Pantaleone. Tornato a casa, dedicò il resto della vita alla moglie, ai figli e poi ai nipoti. Dipendente del Comune di Palermo per quarant’anni, da dirigente della Uil si impegnò nelle difficili battaglie sindacali del dopoguerra, contrassegnate negli anni a seguire dal delicato quadro cittadino e nazionale. Ogni 25 aprile, commemorava la Liberazione con il consueto discorso davanti al cippo realizzato in memoria del suo amico Pompeo Colajanni, comandante “Barbato”, il partigiano che liberò Torino. È morto il 1 settembre 2010 all’età di 89 anni.
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Il 24 aprile dello scorso anno, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, davanti alla lapide che ricorda le vittime della Divisione Acqui, ha dichiarato che “La Lotta di Liberazione è stata il fondamento della costruzione di tutti e 139 gli articoli della nostra Costituzione che costituiscono il punto di riferimento non soltanto per esprimere gratitudine per il passato, ma per confermare condanna al nazifascismo e costruire un futuro sempre più forte di diritti per ciascuno, senza discriminazioni di sorta. Che ogni giorno sia 25 aprile, che ogni giorno sia Festa di Liberazione”. Sarebbe un bel gesto da parte dell’Amministrazione comunale se, per esprimere una volta di più “gratitudine per il passato“, di propria iniziativa intitolasse qualcosa alla memoria di Salvatore Pantaleone, il partigiano Orione. Una storia palermitana.