“Siete riusciti a entrare? Siete riusciti a entrare? Siete riusciti a entrare? La cerimonia sta per cominciare”, ma la cerimonia invece era finita perché quando James Douglas Morrison registrava i primi versi della poesia “An American Prayer” era già un cranio privo di occhi e di anima inghiottito da una notte senza fine. Il cantante della band californiana di rock psichedelico The Doors avrebbe intrapreso, ancora per poco, il disperato tentativo di uccidere la rockstar per consacrare il poeta. Nell’invito costante allo sconvolgimento dei sensi per imparare quel piccolo gioco chiamato strisciare dentro il cervello, quel piccolo gioco chiamato impazzire, cavalcando il serpente fino all’alba, camminando attraverso composti bibuli di letame e lattiginosa pamacciatura fino ad osservare, giusto per continuare a citare passim, il caldo progredire sotto le stelle raccontando dell’angoscia nella perdita di Dio. Era il 3 luglio del 1971, a Parigi moriva Jim Morrison. Fu trovato al terzo piano del suo appartamento di Rue de Beautreillis 17. Aveva 27 anni. Da allora ne sono passati cinquanta.
Si era rifugiato in Francia tre mesi prima in cerca di ispirazione, per disintossicarsi dall’alcol e sfuggire alla quasi certa condanna del processo di Miami in cui era imputato, tra le altre cose, per oscenità in pubblico. Il mito che ha infiammato generazioni continua a vivere con la sua voce di ottone e cuoio, solenne, autoritaria, drammatica, tormentata. Il latrato di cento cani, nell’attacco di “Back door man“. Forse l’urlo più selvaggio e corrotto di qualunque altra canzone della storia del rock. “Arresto cardiaco”, chiunque muore per arresto cardiaco ma occorre capire cosa l’abbia provocato. Nel suo caso è facilmente intuibile.
Le droghe, l’alcol, gli eccessi di cui era ormai ostaggio ne avevano minato la salute. Nel referto del medico legale pare non ci fosse scritto altro che questo: “arresto cardiaco”. Non morì nell’iconica e romantica vasca in ceramica piazzata nel bel mezzo di un grande bagno, come ci ha fatto vedere Oliver Stone nel film “The Doors“. Era piccola, in muratura, incassata alla parete. Il cadavere fu trovato immerso nell’acqua ancora tiepida, un braccio penzoloni e la testa reclinata da un lato. Il corpo ci entrava a malapena. Oltre al medico, a vedere Jimbo ormai privo di vita, soltanto la compagna di sempre, Pamela Courson, che sarebbe morta tre anni dopo per overdose di eroina. Il manager dei Doors, Bill Siddons, arrivato in fretta e furia dagli Usa trovò la bara già sigillata. Niente autopsia.
Questo e altri particolari hanno alimentato il mistero della morte del cantante di uno dei gruppi rock più controversi degli ultimi 50 anni. Il combo californiano era una mosca bianca nel panorama della musica dell’epoca. Nel periodo dei figli dei fiori, insieme ai Velvet Underground di Lou Reed, loro erano i “cattivi”, non predicavano “pace e amore”, cantavano di terra, fuoco, sangue, serpenti. Non predicavano. Pare che Jim Morrison non tenesse neppure in grande considerazione, o simpatia, gli hippy. Lui, considerato archetipo del punk, padrino del nichilismo tradotto in nota. Lettore onnivoro, amante dell’opera di Nietzsche e Rimbaud, vittima di se stesso, della solitudine e di tanto altro ancora.
Non riuscì a reggere il peso della notorietà, né quello della vita. Parlando della sua attitudine al bere era solito dire che ogni bicchiere era una scelta, un passo avanti verso la morte. Vivi in fretta, brucia come una candela accesa da entrambi i lati, lascia un bel cadavere. Per sempre giovane, per sempre uguale a se stesso. Prima di lui, erano già morti Jimi Hendrix e Janis Joplin. Ne era rimasto molto colpito, ma non per questo aveva cambiato il suo stile di vita. A chi lo accompagnava nei vari tour etilici tra i bar di Los Angeles usava dire “state bevendo con il numero tre”, riferendosi alla sua morte incipiente.
Le tre “J”: Jimi, Janis e Jim. La sua dipartita avrebbe alimentato la leggendaria maledizione del “club dei 27“, quello delle rockstar morte prematuramente a 27 anni. Come Brian Jones dei Rolling Stones che nel ’69 aveva già detto addio. Anche lui dedito alla crapula più sfrenata, morì per annegamento in piscina.
Nei due anni prima della sua morte, il fisico longilineo da sciamano invasato di Morrison aveva lasciato il posto a un corpo flaccido e imbolsito dall’alcol. I lunghi capelli ingrigiti precocemente, la voce arrochita dai quattro pacchetti di Marlboro al giorno, ma sempre pastosa e ricca di colori. Prima del trasferimento oltreoceano aveva inciso uno degli album rimasti nella storia del rock, L.A. Woman. Poi aveva comunicato agli altri Doors, Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore, di voler abbandonare il gruppo e la musica.
Signore e signori, da Los Angeles, California, i Doors: la band di Acid Rock più cattiva del pianeta stava per scrivere la parola fine alla leggendaria corsa verso l’immortalità proprio per mano di uno dei suoi fondatori. Un sound personale, un ritmo da incubo carnevalesco per diffondere versi che raccontavano di catacombe con lo stesso piglio di chi cantava di spiagge e ragazze in bikini. O ancora la singolarità del ritmo di Bossa Nova con cui attaccava “Break on through”. Mai ascoltate commistioni talmente improbabili ma efficaci. Furono tante le cose che portarono alla morte terrena del “Re Lucertola”, lo stress dei vari processi collezionati per gli eccessi sul palco, e non solo. Il rapporto controverso con la famiglia d’origine, le difficoltà di comunicazione, la poca fortuna nel trovare qualcuno disposto ad ascoltarlo senza per forza avere la pretesa di essere capito. O niente di tutto questo, magari è stato semplicemente il vizio. Magari è stato annientato da qualcosa che non ha proprio un bel niente a che fare con la poetica decadente del dolce naufragare.
Cosa rimane di Jim Morrison cinquant’anni dopo? Le raccolte di poesie, alcune studiate negli atenei americani, una tomba a Père Lachaise, il cimitero degli artisti di Parigi, la voce di un angelo caduto all’inferno, canzoni uniche, un’eredità perpetua e un profumo di whisky, fumo, cuoio e carta pergamena che ne circonfondono il ricordo. E poi suggestioni: poesia. Immagini dei regni di estasi, dei regni di luce. Perché alcuni nascono destinati alla dolce delizia, alcuni per la notte infinita. Non male per uno che tra i suoi progetti non aveva quello di diventare un cantante rock.
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Caro Davide, un bel pezzo tra sentimenti umani e velate critiche. Dovresti scrivere di più sul giornale, sei anche scrittore-giornalista con la poesia nel cuore, e non è cosa da poco. E ne sono orgoglioso del Direttore Davide Maniscalco-gentiluomo. Ciao, Rino Marr.
Grazie caro Maestro, dette da te sono parole da appuntare come medaglie al petto. Troppo buono, come sempre. Un affettuoso abbraccio. Davide