In Sicilia, dopo l’intontimento e il disorientamento per il Covid, che ha stravolto le nostre abitudini, anche familiari, non si è fermato, per nostra buona fortuna, e nell’ambito di alcuni incontri per la ripresa del Sud, l’interesse politico per il bene comune e per il suo futuro positivo, con nuove dichiarazioni, dibattiti, proposte e provvedimenti che coinvolgono positivamente la gestione del governo regionale, tra i quali l’approvazione del governo centrale a nuove assunzioni nella Pubblica amministrazione siciliana, come ha riferito Cronaca di Sicilia.
Tutte ottime cose, che danno fiducia e fanno bene sperare, ma non quando si rispolvera, forse per comodità politica, il problema ultracentenario della “questione meridionale” che riguardava il nostro Sud quando era considerato – da oltre Napoli come ultima stazione ferroviaria -, territorio di confine, senza identità e terra di briganti. La “questione meridionale” è datata sin dall’Unità d’Italia, e denunciò il divario tra Nord e Sud isole comprese – uno ricco e l’altro in povertà -, con il conseguente carteggio con dati allarmanti di una inchiesta sulle gravi condizioni sociali ed economiche della Sicilia, abbandonata nella povertà e in preda alla violenza e alla speculazione mafiosa, con i fanciulli sfruttati nelle miniere di zolfo delle province di Agrigento (una volta Girgenti) e di Caltanissetta.
L’indagine fu condotta nel 1876 dai deputati nazionali, Leopoldo Franchetti e da Sidney Sonnino, e suscitò enorme clamore, stupore e indignazione nel Parlamento del Regno d’Italia, da qui la denominazione “Questione meridionale”. I due deputati, che erano stati sollecitati da deputati siciliani, poterono accertare, con documentazioni e interviste ai magistrati, che oltre alla povertà, aggravata da tasse sui latifondi, era in atto l’ignobile sfruttamento minorile, organizzato da gruppi mafiosi, nelle miniere di zolfo delle province di Agrigento e di Caltanissetta in cui i carusi venivano impiegati tutto il giorno e per pochi centesimi al trasporto di pesanti sacchi di zolfo estratto dalle miniere, caricati sulle spalle e portati sin dove veniva depositato per essere poi trasferito altrove.
L’inchiesta si soffermò sulla grande sofferenza umana della Sicilia che, ad appena pochi anni prima, si era battuta con i garibaldini e i siciliani per l’unità d’Italia. L’indagine dei due politici non provocò nessuna reazione, dopo i primi accesi dibattiti in Parlamento sulla Sicilia nota solo per la sua partecipazione all’impresa garibaldina. È una triste vecchia storia. L’allora questione meridionale non ha nulla a che fare con le problematiche sociali ed economiche di oggi. È, nel confronto tra Regioni e Governo per la ripresa del Sud, una nuova questione da proporre per la produttività e per la dignità della vita sociale. La percezione è però quella della politica del rilento, nonostante le manifestazioni di volontà di dare una decisa svolta, netta e positiva e non a spizzichi e bocconi come è nel costume generale, al settore economico, culturale e sociale.
Talvolta, sembra che più si è in difficoltà, più si è orientati a tuffarsi nella dietrologia anziché proiettarsi in avanti, mentre c’è necessità, da parte delle politiche regionali e comunali, di sapere impostare studi, ricerche e avviare provvedimenti finanziari nel solo interesse della collettività – come quello della Regione Sicilia che ha approvato stanziamenti per la funzionalità dei porti nelle nostre isole minori -, seguendo il principio umano e solidaristico che si evince dalla scienza politica – come è noto, studia la società dal punto di vista politico e analizza l’economia e il Diritto pubblico e privato con attenzione particolare -, relativa all’equa distribuzione di risorse a imprese industriali, oggi in piena difficoltà, ad aziende artigiane, ai servizi pubblici, alle amministrazioni comunali e per il sostegno alle famiglie con disagio economico.
Al riguardo, Nello Musumeci, governatore della Regione Sicilia, intervenendo ai lavori della prima giornata sul tema Sud-Progetti per ripartire, si è tolto più di un sassolino dalla scarpa, sostenendo (riferisce l’Ansa del 23 marzo scorso), e sollecitando ampio dibattito tra i presenti, che della cosiddetta “questione meridionale si può anche morire, visto che se ne parla da 150 anni e dalle nostre parti il tema viene affrontato con un certo scetticismo. Nel Mezzogiorno – ha ancora detto il Governatore – si corre il rischio di perdere le ultime potenziali risorse per la crescita e l’avanzamento, in quanto basato su problematiche ormai superate da 150 anni. Guai a dire che la colpa è sempre di Roma, la colpa è anche delle realtà locali, del clientelismo. Chiedo al ministro del Sud e al presidente del consiglio, qual è l’idea del Mezzogiorno che hanno Bruxelles e Roma, quale la proiezione del bacino euro-asiatico, perché solo se chiariamo questi obiettivi potremo capire cosa realizzare nel sud d’Italia. In Sicilia e nel Mezzogiorno i progetti sono fermi da almeno 30 anni, c’è quindi una contraddizione che si chiama lentezza”. Musumeci, infine ha lanciato l’appello: “Roma e Bruxelles devono capire che il sud non è una questione di meridionali perché i primi errori si fanno a Roma”.
È un atto di accusa a tutto il sistema politico nazional-europeo, quello di Musumeci, o è un modo di fare ammuìna politica (termine palermitano per dire: caos o confusione)? Segnali positivi però arrivano dal governo centrale, alla luce di annunciati nuovi investimenti e dei contributi dell’Ue in parte da destinare al Sud e in particolare alla Sicilia per la ripresa della produzione e il sostegno alle realtà locali, diverse da comune a comune. Ma intanto, anche il sindaco Leoluca Orlando qualche giorno fa aveva fatto sentire, nel suo ruolo di presidente dell’Anci-Sicilia, il suo scontento: le realtà locali hanno bisogno di sostegno; “ne parlerò con Draghi“, dichiarò.