Maxi confisca all’imprenditore Zummo. Undici aziende, centinaia di conti correnti, numerosi appartamenti, ville terreni e aziende agricole a Palermo e provincia, cinque complessi residenziali nella provincia di Siena. Questo è l’impero sequestrato e confiscato all’imprenditore edile Francesco Zummo dalla Dia di Palermo su disposizione della Corte di Appello del capoluogo. Un tesoro da 150 milioni di euro.
Considerato dagli inquirenti uomo “a disposizione di Cosa nostra fin dai tempi di Riina e Provenzano per il riciclaggio di denaro nel settore edilizio”.
“A partire dalla fine degli anni Sessanta – dicono i magistrati – Zummo, con il consuocero Vincenzo Piazza (ritenuto consigliere della famiglia mafiosa di Palermo-Uditore) e con il defunto socio e suo fedele braccio destro Francesco Civello, fu tra i principali responsabili del sacco di Palermo, ordito da Vito Ciancimino, realizzando un impero edile di circa 2.700 immobili”.
“L’imprenditore – continuano gli inquirenti – nonostante fosse vicino alle famiglie mafiose della Noce prima e a quella dell’Uditore poi, ricoprì un ruolo trasversale rispetto alle vicende della guerra di mafia, che portarono vari boss ad alternarsi per conquistare un controllo egemone sulla città e la provincia. Lo dimostra il fatto che fu prestanome e custode dei proventi del narcotraffico, oggetto dell’indagine Pizza Connection, riconducibili ai boss Gaetano Badalamenti e ai Gambino, a Leonardo Greco e Michelangelo Aiello nonché a quelli, di altra provenienza illecita, di Fulvio Lima, nipote di Salvo“.
L’attività di Zummo a suo tempo attirò le attenzioni investigative dell’allora giudice istruttore Giovanni Falcone, poi riscontrate dalle convergenti dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, fra i quali spicca la testimonianza di Massimo Ciancimino. Anni di indagine della Dia palermitana, coordinata dalla locale Procura e dalla Procura generale, hanno portato all’arresto e alla condanna di Zummo con l’iniziale sequestro di un patrimonio a suo tempo stimato in 300 miliardi di lire.
Dopo un lungo e complesso iter processuale, un annullamento con rinvio della Corte di Cassazione – chiamata ad esprimersi dal procuratore generale di Palermo sul dissequestro e la restituzione del patrimonio nel 2016 – la Corte d’Appello di Palermo ha definito la vicenda, sancendo definitivamente come il patrimonio accumulato fosse “il risultato dell’esercizio di una vera e propria impresa mafiosa”.